“No, non mi pare giusto, è che il mondo è fatto per i maschi. Ma tu devi resistere. Sei una femmina, puoi farlo”.
Il mondo è senza
dubbio destinato agli uomini, ma le braccia che lo sorreggono sono certamente
quelle di donne forti e volitive, sotto cui grava il peso del mistero
esistenziale. A loro è concesso il dolore della Vita, che agita, sconquassa,
mette alla prova con lo scopo di allenare il cuore agli addii e alle gioie
sommesse.
Ma evidentemente
la concentrazione più grande di donne, che prima ancora di essere individui
sono femmine, la troviamo nella Sicilia di Giuseppina Torregrossa, che parla di
grandi Donne nel suo ultimo romanzo Il figlio maschio (Rizzoli, 2015, pp.
309).
Questa è una
saga familiare che abbraccia circa ottant’anni di storia vera – i personaggi
sono realmente esistiti, alcuni sono ancora in vita – una storia fatta di
piccoli e grandi sconvolgimenti, in cui all’odore degli agrumi siciliani si
mescolano i pettegolezzi delle donne di Palermo, i rimproveri e le lacrime delle
mamme catanesi e la dolcezza luminosa dei paesaggi siciliani.
Don Turiddu Ciuni
- negli ormai lontani anni ’20 del Novecento - ha solo un pensiero in testa,
un’idea fissa che sì lo culla, ma che soprattutto lo tormenta: chi dei suoi
figli si occuperà del feudo di Testasecca una volta che le forze lo avranno
abbandonato? Chi dedicherà il suo tempo, la sua passione, a quel terreno dell’entroterra
siciliano che tanto gli somiglia? La moglie Concetta continua a deludere le sue
aspettative, lei che si ostina a far studiare tutti e dodici i figli, femmine
comprese, lei che mette in testa persino a Filippo, il primogenito a cui la
terra sembrava destinata per legge naturale, quelle “grandissime minchiate”
chiamate “libri”.
Fin da subito si
delinea il filo conduttore del romanzo: i libri. L’amore per la carta,
l’inchiostro, le copertine foderate in pelle e incise con grandi caratteri
dorati, l’amore per la letteratura – e poi la passione per l’editoria – saranno
i perni attorno a cui ruoteranno le vite dei protagonisti. Filippo Ciuni, “il
figlio maschio” prediletto, segnerà il tracciato della storia della sua
famiglia, una storia fatta di librerie, di bisticci, di pubblicazioni e anche
di soddisfazione. Concettina, che adora quel fratello sognatore sì, ma anche
concreto e intelligente, sposa la causa letteraria di Filippo e – siamo già
arrivati a metà degli anni ’30 – insieme a lui lascia Sommatino per Palermo,
dove intravede la possibilità di un futuro diverso, migliore, per e grazie ai
libri.
“Nei libri Concettina cercava soprattutto vite nuove da vivere. E quando si affezionava a un personaggio, se lo portava dietro in ogni momento della giornata”.
Ecco che i libri,
dunque, non sono solo simbolo concreto di indipendenza e di riscatto (grazie
alla libreria aperta da Filippo), ma sono soprattutto passione e possibilità di
reinventarsi, di ricercarsi (e ricrearsi) in altre esistenze, in altri luoghi,
in altri personaggi. Per tutta la durata del romanzo i libri saranno la cupola
sotto cui si raduneranno gli animi dei protagonisti, saranno il rifugio che non
si piega allo scorrere del tempo, dei decenni e che non è soggetto a
logoramento: cambia la forma, cambia la veste, magari si modifica anche il
contenuto, ma l’essenza resta.
Da quel lontano
1934, durante il quale Concettina – che si sentiva al sicuro solo “in quella
farraginosa gabbia d’inibizioni che si era costruita fin dall’infanzia” – e
Filippo si industriano per portare avanti con successo la libreria, di anni ne
passano, e passano così anche gli eventi, che si fanno parola a volte dura a
volte morbida, scivolando sotto la penna guizzante della Torregrossa. La sorte
decide che la famiglia Ciuni prima e la famiglia Cavallotto poi, si dovranno
destreggiare nella rete di inganni, illusioni e sconvolgimenti che la vita ha
riservato per loro. Tutto cambia e tutto resta: il cocente sole siciliano vedrà
nascere e crescere gli amori di Mimma e Libertino, di Adalgisa e Vito, vedrà
fiorire i sogni di Cetti, di Luisa e di Anna, così come il gelido vento
palermitano di febbraio sarà testimone di morti dolorose e di addii
inaspettati.
Giuseppina
Torregrossa costruisce in poco più di trecento pagine una saga familiare che
non lascia dubbi: intensa, appassionante, incisiva, una storia di vita vissuta
che, proprio come la Vita, si aggrappa con tutte le forze alle pagine del
libro, mostrando la sua forza e il suo coraggio. Le vere protagoniste del
romanzo della Torregrossa sono le donne, quelle femmine siciliane che, dagli
inizi del Novecento fino agli anni ’90, conservano un ardore speciale, quasi
misterioso. A partire da Concetta Russo, passando per la figlia Concettina,
fino ad arrivare a Mimma, Adalgisa, a Cetti, Luisa ed Anna, rintracciamo un
unico sentimento, quello della rabbia. Ma, badate bene, non si tratta di rabbia
intesa come elemento negativo, la loro è rabbia di vivere, o meglio la rabbia
dell’esistenza: un concentrato di amore, sofferenza, illusione mascherata da
disillusione, audacia e viva intelligenza, che le porteranno a fronteggiare i
traumi della loro storia personale come solo le Donne sono capaci di fare.
Paradossalmente Il figlio maschio è un romanzo che parla di una femminilità che si impone con
forza, donne sicure della loro disperazione e del loro perché.
“Era stata una donna forte e volitiva e aveva reagito alle avversità con un certo cipiglio”.
Questo si dice
di Concetta, la moglie di Don Turiddu, che fin da subito impone al marito la
sua necessità di allargare gli orizzonti: Filippo, il suo primogenito, non sarà
destinato alla terra, ma alla cultura. Sono le donne a decidere cosa ne sarà
del futuro, sono loro a stabilire l’urgenza del riscatto sociale, ad
individuare la luce in fondo al tunnel, a rintracciare – ogni volta – il guizzo
di autenticità che renderà le loro azioni pure e quasi sempre vincenti.
Gli anni corrono
veloci, molte cose cambiano, le librerie chiudono e riaprono, ma la tenacia
delle donne resta immutata. Chi con un pizzico di malizia, chi con arguzia, chi
mossa da livore, chi da semplice – e ingenua – curiosità, ognuna di queste
figure femminili (giovane o vecchia che sia) ha un ruolo ben definito entro il
quale stabilisce il prima e il dopo in quella terra possente che è la Sicilia.
Sicilia a cui la Torregrossa (palermitana doc) si sente particolarmente vicina
e che sembra quasi diventare essa stessa una donna: è mamma che protegge e
accudisce, ma al contempo è guerriera spavalda e severa, che rimprovera e
ferisce. Un’isola che fa da sfondo a questo romanzo, romanzo che però, a sua
volta, si impregna profondamente dei sapori e degli odori della sua terra, a
partire dalla lingua: la Torregrossa accompagna il lettore nell’immersione
delle atmosfere siciliane, utilizzando il dialetto in modo piacevole e delicato.
La Sicilia
descritta ne Il figlio maschio è una Sicilia ben diversa da quella che ci
presenta un Orazio Labbate, o un D’Arrigo o un Bufalino, perché non è solo
terra oscura e torbida, autoritaria e misteriosa, che si dimena nell’inquietudine
della notte, ma diventa Sicilia che abbraccia e accoglie, pur mantenendo la sua
autorevolezza. Si avverte – con una venatura di nostalgia – l’impronta di
Vitaliano Brancati, della struggente malinconia che pervade, a tratti, romanzi
come Il bell’Antonio o Conversazione in Sicilia di Vittorini: la grandezza
della scrittura della Torregrossa risiede nella capacità di sfornare un
prodotto moderno ma che odora di antico, in cui è ancora possibile gustare il
sapore della grande letteratura del Novecento.
Mentre da una
parte i libri sono pilastro e fondamenta delle vite dei protagonisti e
sorreggono il testo delineando anche le scelte di chi lo abita, dall’altra è
vero che il romanzo, pur essendo portavoce del potere femminile, conserva anche
uno sguardo per quelle anime maschili che sono il frutto stesso della donna.
L’anima maschile più sensibile, e forse per questo più vicina al mondo
femminile, è quella di Vito: marito devoto e discreto, padre premuroso e
attento, libraio appassionato. Questo è Vito, il figlio prediletto di
Concettina, che racchiude in sé una dolcezza che si distanzia nettamente dalla
forza della madre, amazzone ferita ma ancora combattente.
Si intersecano,
dunque, i vissuti di uomini e donne, di maschi e femmine, mentre si accingono a
prendere posto in quel grande edificio di storia e di emozioni che Giuseppina
Torregrossa ha eretto con Il figlio maschio.
avvolgente,mi ricorda l'odore del pane cotto nel forno di pietra,le conversazioni delle donne che zittivano noi bambini alla minima intromissione,le olive cotte nella brace della conca do luci ..il profumo della mia infanzia
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